Il merito, questo sconosciuto. Potrebbe tranquillamente essere il titolo per una storia d’Italia dell’ultimo ventennio. È notizia recentissima che la crisi ruba il lavoro a un laureato su quattro. Tra i laureati triennali, infatti, la disoccupazione è cresciuta di 4 punti percentuali, dal 22,6% al 26,5%. Lievita anche fra i laureati magistrali, dal 21% al 23%.
Se si guarda alla stabilità della retribuzione le note sono ancora più dolenti: crolla a mille euro netti mensili, con una contrazione media del 4%; rispetto al 2008 il calo raggiunge addirittura il 20%. Questi dati diventano tanto più drammatici se si pensa che nel nostro Paese meno di un occupato su cinque (il 18,7%) ricompreso tra i 15 e i 64 anni vanta una laurea. Un trend che fissa l’asticella a meno della metà del Regno Unito (39,9%) e al di sotto anche del 35,2% della Francia. Rispetto alla Germania si registra poi un abisso di oltre dieci punti (28,9%).
La gravità dei dati sulla bassa occupazione dei laureati italiani è evidente quando si nota che essi vantano meno concorrenza proprio nel mercato interno…
Insomma, nel nostro Paese il merito è un vero optional per chi studia e chi si applica. Lo dimostra anche ilfenomeno degli overeducated, cioè quei giovani laureati precari che accettano di svolgere mansioni non “allineate” rispetto alla propria formazione. Una criticità che è emersa in tutta la sua drammaticità tra il 2009 e il 2011. Da allora, circa il 40% dei giovani tra i 24 e i 35 anni che possiedono una laurea almeno triennale svolgono un lavoro a bassa o nessuna qualifica, pur di strappare un qualche reddito. Anche in Germania gli overeducated esistono, ma rappresentano solo il 18% dei giovani.
E’ un atroce paradosso, quello per cui si diventa troppo “educati”, formati, con un titolo di studio troppo alto per lavorare: esso mina alle fondamenta le basi della società italiana. Perché sia ben chiaro: che idea di Stato puoi dare ai giovani se come Governo prima li stimoli in tutti i modi a raggiungere il “pezzo di carta”, spesso additando come falliti coloro che non lo conquistano, come sfigati o peggio ancora comechoosy, e poi non ti curi di loro?
La realtà è che l’Italia non ha ancora deciso che strada intraprendere, mortalmente combattuta tra la sua tradizione manifatturiera e quella di maestri dell’innovazione, dello sviluppo e della ricerca. Su quest’ultimo punto pesano come macigni le responsabilità del sindacato italiano che lotta tenacemente per difendere gli ammortizzatori sociali conservativi e invece mantiene un silenzio di tomba sul versante delle politiche attive per il lavoro e sulla richiesta di una istruzione e formazione professionale di qualità.
L’emblema resta Torino, fino a pochi decenni fa capitale mondiale dell’auto e oggi distretto industriale in declino: la Fiom e in generale tutti i sindacati locali si arrovellano sul futuro della Fiat, invece di preoccuparsi di pretendere dalla politica, a tutti i livelli, la costruzione di strumenti per superare il modello fordista. Una miopia del tutto incomprensibile, in particolare se si pensa che proprio nel capoluogo sabaudo esiste un’Università di eccellenza come il Politecnico, che sforna fior fiori di ricercatori e sulla quale si potrebbe fondare la riscossa della prima capitale d’Italia.
D’altra parte, in questa ultima settimana il governo Renzi si è molto preoccupato delle scuole, ma solo per la questione della manutenzione degli edifici scolastici. Certo, è giusto occuparsene, ma dovrebbe essere qualcosa di scontato in un Paese civile: un’azione che non dovrebbe neppure fare notizia. La vera novità per riformare l’Italia sarebbe invece scommettere sul capitale umano, sulla sua formazione, sulla qualità dei programmi didattici e soprattutto su una stretta relazione tra mondo dell’istruzione e quello del lavoro, dell’impresa. L’Italia invece risulta essere da anniil fanalino di coda in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata allacultura(1,1% a fronte del 2,2% dell’Ue a 27) e al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, per percentuale di spesa inistruzione(l’8,5% a fronte del 10,9% dell’Ue a 27).
Su questo punto si aggiungono i ritardi colossali nella spesa per la ricerca e per il finanziamento delle start up, cioè di quelle aziende che stanno fiorendo in tutti gli altri Paesi grazie alla capacità di premiare e sostenere economicamente le idee innovative. Secondo un recente studio, ogni posto di lavoro creato da questa tipologia di impresa ne genera altri cinque. Poiché strade parallele non portano a nulla, occorre comprendere che solo la contaminazione tra lavoro e scuola rappresenta la ricetta vincente: altrimenti si perde un treno essenziale per la sopravvivenza della nostra economia e si diventa Terza Europa (se non addirittura Terzo Mondo).
(fonte: http://italian.ruvr.ru/2014_03_12/L-Italia-non-e-un-Paese-per-il-merito-4014/)
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